Il ruolo (marginale) delle criptovalute nel conflitto tra Israele e Hamas

Roberto Migliore
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Negli ultimi giorni, l’attenzione di telegiornali e carta stampata è focalizzata sulle atroci notizie che giungono da Israele, Striscia di Gaza e Cisgiordania.

Nella ridda di news drammatiche, ne è emersa una relativa alle criptovalute e al ruolo che avrebbero avuto nel finanziare l’attacco terroristico da parte di Hamas contro gli israeliani.

Da quanto è emerso dai media generalisti, si è avuta l’impressione che le crypto fossero nuovamente demonizzate, perché utilizzate per sovvenzionare azioni di guerra.

Ma è davvero così? Ce lo siamo chiesti noi e se l’è chiesto anche la società di analisi delle blockchain Chainalysis.

Procediamo con ordine.


Nella giornata di ieri il Dipartimento del Tesoro degli Stati Uniti, Ufficio per il Controllo dei Beni Stranieri (OFAC), ha imposto sanzioni a un exchange di criptovalute con sede a Gaza.

Questo exchange, noto come Buy Cash e che opera dalla Striscia, è accusato di aver svolto un ruolo determinante nel facilitare l’attività di finanziamento del terrorismo, visto che Hamas avrebbe ricevuto quasi 41 milioni di dollari in criptovalute prima dell’attacco contro Israele.

Già nel giugno del 2021, questo exchange era guardato con sospetto dal Bureau Nazionale israeliano per il Contrasto al Finanziamento del Terrorismo che aveva sequestrato un certo numero di wallet di criptovalute (alcuni dei quali erano collegati alle Brigate Izz al-Din Qassam), sospettati di aver avviato una campagna di raccolta fondi per Hamas. Uno degli indirizzi dei portafogli apparteneva a Buy Cash.

Da quando Hamas ha attaccato Israele all’inizio di questo mese, le autorità israeliane hanno sequestrato decine di account di criptovalute e bloccato milioni di dollari di criptovalute che sembrerebbero legate al finanziamento del terrorismo.

All’azione delle autorità di Israele si è affiancata quella dell’OFAC, che ha esteso le sanzioni fino a includere dieci membri chiave e collaboratori finanziari associati a Hamas, operanti in diversi Paesi, tra cui Algeria, Sudan, Turchia e Qatar.

Un ruolo marginale


Ma davvero l’azione dei gruppi terroristici è cresciuta negli anni grazie alle criptovalute? Se l’è chiesto anche la società di analisi delle blockchain Chainalysis che, in un report, ha smentito le news diffuse dai media in questi giorni, affermando come il ruolo delle crypto nel finanziamento del terrorismo sia stato esageratamente enfatizzato.

I dati di Chainalysis hanno rivelato che gli asset digitali giocano un ruolo marginale in queste attività. Inoltre, sebbene alcune organizzazioni terroristiche, tra cui Hamas, Jihad ed Hezbollah, raccolgano e trasferiscano fondi tramite criptovalute, queste transazioni costituiscono una piccola parte del già limitato volume di transazioni illecite con criptovalute.

Nel rapporto si sottolinea come le organizzazioni terroristiche abbiano tradizionalmente preferito metodi convenzionali – basati su valute fiat, istituti finanziari, sistema hawala (un sistema informale di trasferimento di denaro che si basa su accordi di fiducia tra operatori) e società fittizie – come principali canali di finanziamento e, con ogni probabilità, continueranno a farlo.

Chainalysis ha sottolineato che la trasparenza delle transazioni blockchain le rende meno adatte ai terroristi ed è una delle ragioni principali per cui Hamas ha smesso di accettare donazioni in Bitcoin.

Questa trasparenza consente alle forze dell’ordine di rintracciare l’origine e la destinazione di ogni transazione sulla blockchain, un’impresa praticamente impossibile da realizzare con i trasferimenti in contanti.

Metodologie di stima errate

Il rapporto ha inoltre affrontato le lacune nell’analisi dei flussi di criptovalute verso i conti dei terroristi. Dopo l’attacco di Hamas su Israele, sono emersi diversi report sul quantitativo stimato di criptovalute utilizzato per finanziare le operazioni del gruppo.

Chainalysis ha sottolineato che le stime del finanziamento del terrorismo legato alle criptovalute spesso vengono esagerate perché gli analisti tendono a includere tutte le transazioni elaborate da intermediari e non solo quelle direttamente legate ai gruppi terroristici.

Sebbene grandi somme di criptovalute possano sembrare legate ai terroristi, dunque, una parte significativa di questi fondi non ha in realtà alcun legame. Per mantenere l’anonimato, infatti, la maggior parte dei fornitori di servizi aggrega diverse transazioni da diversi utenti. Di conseguenza, il tracciamento di tali transazioni può portare a stime inaccurate.

Nel report viene citato un esempio in cui è stato identificato un wallet crypto presumibilmente collegato al finanziamento del terrorismo, con circa 20 fornitori di servizi come controparti. Per una di queste controparti sono state rilevate diverse transazioni di notevoli quantità di criptovalute (oltre 82 milioni di dollari).

Chainalysis ha messo in evidenza che sarebbe errato trarre la conclusione che tutti questi fondi fossero destinati al finanziamento del terrorismo. Successive indagini, infatti, hanno rivelato che solo 450.000 dollari in criptovalute erano stati trasferiti a entità con legami terroristici.

Insomma, i media hanno preferito dare il via alla solita “caccia alla crypto-strega”, perdendo una buona occasione per concentrare la propria attenzione su questioni più importanti…

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